What’s turnig in my mind ? – Racconto di Alexis Ghidoni


 
 
Apro la porta ed esco, sono le sei di mattina e il sole non è ancora sorto e fa un freddo cane.
Ho fatto, pochi minuti prima, una telefonata che avrei dovuto fare da un anno… è durata meno di un minuto e ora sono qui fuori da casa mia che aspetto, aspetto congelandomi in questo finto inizio di primavera, intorno a me non si muove nulla se non il cane della vicina che mi guarda (occhi neri e malinconici).
Da lontano vedo arrivare una macchina e per un momento ho l’ansia, la voglia quasi folle di tornarmene in casa scappando il più veloce possibile, ma alla fine resto ferma, forse è il freddo a fermarmi o forse è altro.
La macchina non è più quella di una volta, il vecchio pandino rosso è diventato un pandino moderno rosso, rimango perplessa per un attimo pensando a quanto una persona possa affezionarsi a cose banali come una macchina.
La portiera si apre e lui esce, un cenno della testa, non è cambiato di una virgola e spero che nemmeno io ai suoi occhi sia cambiata ma so che sto illudendomi, lo specchio non mente; mi fa segno di entrare in macchina e dopo poco l’aria calda mi investe, mi mancano le parole e non so nemmeno lontanamente da dove iniziare.
-Io..
-Senti Ale, lascia stare…
All’improvviso ho paura, paura che sia troppo tardi, paura che ancora per una volta il mondo non mi abbia aspettato, paura di aver perso, paura di aver tentato e fallito, un miscuglio di paure che per me sono troppe, non ho la forza per reagire a piccoli problemi figuriamoci una cosa del genere, così prendo e faccio per scendere… e lì mi ferma, investendomi di parole che sono troppe per ricordarmele tutte nel dettaglio, ma il concetto è uno: sono una testa di cazzo, conosce tutti i miei difetti meglio delle sue tasche, è incazzato nero con me e spera ardentemente che mi innestino un nuovo cervello perchè è stato male per colpa mia, è stato da cani perchè sapeva perfettamente come stavo e ancora adesso è stupito che ho trovato la faccia tosta di telefonargli (all’alba per giunta).
Io resta zitta, che cavolo avrei potuto dire? scusa? scusa ma stavo male? mi picchierei da sola per una risposta del genere.
Lui scuote la testa e poi accende la radio, prende le cartine e fuma, io per tutto il tempo guardo fuori dalla macchina, mi sento come una condannata di fronte alla giuria: colpevole.
 
"I say fuck you, you will never know, what is turning in my mind fuck you, so you better watch out."
 
Per i venti minuti successivi mi racconta un anno della sua vita:  ha un nuovo lavoro fisso, ha cambiato l’auto perchè l’altra aveva tirato le cuoia, sta con un nuovo ragazzo da circa 3 mesi e dice che si trova abbastanza bene, hanno avuto dei problemi col datore di lavoro del suo ragazzo che a quanto pare non ama gli omosessuali ma pare che la cosa si stia sistemando.
Poi guarda l’orologio e mi chiede se voglio stare zitta per un altro po’.
Io gli ho chiesto se era sicuro di voler sentire i miei problemi perchè avrebbero potuto avere il suono di scuse e giustificazioni e non mi andava che li prendesse in quel modo.
La risposta è stata:
-Le "scuse" come intendi tu sono balle, sono cose dette per coprirne altre, sono, la maggior parte delle volte, piccoli problemi ingigantiti per nascondercisi dietro..
Ma se tu mi apri il cuore e mi parli dei pesi che ti porti dietro questi non potranno mai essere scuse..
Ale.. ma come cazzo stai?-
 
"E Intanto aspetti il colpo di scena quell’occasione unica che ti sistema ogni problema"
 
Ho chiuso la porta dietro di me, mi ci sono appoggiata contro e ho ripensato alle altre poche cose dette, non so come andrà, non ho la più pallida idea se sia l’inizio della risalita o un altro sparo a vuoto, però l’ho fatto.
 
 
 
 
 
 
 
Racconto scritto da Alexis Ghidoni
Tutti i diritti sono riservati
 
 
 

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